Crespi, la fabbrica che ha costruito un villaggio

 

“Il lavoro allontana da noi tre grandi mali: la noia, il vizio e il bisogno”. Quando, in uno dei suoi scritti più noti, il filosofo Voltaire sostenne questo pensiero dalla forte caratterizzazione illuministica (Candido o l’ottimismo, 1759) poteva solo ignorarne il grande eco che avrebbe avuto nella sua Francia e nel resto d’Europa. Tali parole contribuirono ad alimentare, anche durante l’Ottocento, il sogno di alcuni grandi imprenditori di tutelare e rendere gradevole la vita dei propri operai dentro e fuori la fabbrica, cercando di colmare i ritardi della legislazione sociale dello Stato. La visione, per così dire, filantropica si esemplificò nei cosiddetti villaggi industriali, autentici modelli di città ideale, in cui il datore di lavoro provvedeva a fornire a tutti i suoi dipendenti non solo un’abitazione più che dignitosa ma anche i servizi necessari alla vita della comunità: chiesa, scuola, ospedale, dopolavoro, teatro, bagni pubblici …

Oltre alle case ospitava chiesa, scuola, ospedale, dopolavoro, teatro, bagni pubblici …

Questa smisurata fiducia nel progresso, nel lavoro e nell’industria influenzò anche Cristoforo Benigno Crespi, figlio di un tintore di Busto Arsizio, che scelse l’area corrispondente all'estrema punta meridionale dell'Isola Bergamasca (porzione della provincia di Bergamo racchiusa fra i fiumi Adda e Brembo, oggi all'interno del territorio del comune di Capriate San Gervasio) per dar finalmente vita al suo sogno di produrre filati preziosi a livello industriale. Il progetto risultò, ai tempi, decisamente ambizioso non solo per le dimensioni e l’innovazione tecnologica necessarie ma anche, e soprattutto, per l’anelito verso il bello, verso quel senso dell’estetica e del vivere secondo natura che caratterizzavano la personalità di Cristoforo e che erano tanto lontane dalle logiche prettamente industriali.

... per favorire lo studio, la salute e l’igiene, l’attività sportiva e lo svago

Nel 1878 iniziò la costruzione dell’opificio che si caratterizzò da uno splendido ingresso centrale ricco di elementi decorativi in stile neo-medioevale e da altissime ciminiere che garantivano la respirabilità dell’aria. I capannoni, distribuiti in modo lineare, furono arricchiti da contorni in laterizio e da fregi con stelle a otto punte; la copertura a shed (o “a denti di sega”) e le ampie finestre assicuravano una costante illuminazione naturale all’interno. Dall’Inghilterra furono importate non solo le migliori apparecchiature e le innovative metodologie produttive ma anche il dibattito sull’abitazione più consona agli operai, in un’ottica di risposta all’esigenza di conciliare casa e lavoro in un unico centro abitato che fosse funzionale tanto agli interessi dell'imprenditore quanto a quelli del lavoratore. Il benessere fisico e psichico di quest’ultimo risultava fondamentale per una buona resa per cui era necessario coltivare in lui quel senso di appartenenza e di gratitudine nei confronti dell’azienda e dei suoi titolari. Fu così che anche Silvio, figlio di Cristoforo a cui il padre affidò la conduzione dell’impresa tessile, promosse tale visione paternalistica sostenendo interamente l’edificazione di circa quaranta case per gli operai, in ognuna delle quali potevano alloggiare al massimo tre nuclei familiari.

Ognuna delle abitazioni per i dipendenti aveva il proprio orto e giardino...

Le alte stanze dalle ampie finestre, assicurando luce ed areazione più che sufficienti, garantivano, nell’ottica “crespiana”, la salute degli operai. Ogni palazzina aveva il proprio spazio verde esterno da adibire a orto ed a giardino, che veniva tenuto ordinato e pulito dagli abitanti del singolo stabile. Era una modalità per proporre agli operai come occupare il tempo libero, spronandoli a tenere in ordine la propria casa, anche esternamente, in modo da garantire al villaggio un aspetto gradevole. Fu persino costituita un’apposita commissione per premiare annualmente gli orti ritenuti migliori. Sempre nella logica di una sana competizione all’interno di un’organizzazione fortemente gerarchica, furono edificate, in una zona più isolata, cinque villette per i capi-reparto le quali si differenziarono da quelle degli operai per lo stile architettonico, per l’articolazione volumetrica e per la ricchezza di elementi decorativi. Non potevano ovviamente mancare, e spiccare per bellezza e ricercatezza, le abitazioni per i dirigenti dell’azienda: otto, in stile anglosassone, differenti fra loro e situate in zone di pregio paesaggistico. L’abitazione del direttore generale fu talmente signorile da prevedere addirittura un terrazzo-porticato in legno e una dependance. Tutte le ville furono circondate da bellissimi giardini simili a piccoli parchi. In tale crescendo di importanza e stile, la villa padronale fece bella mostra di sé col suo stile tardo-gotico e le due torri: una a cuspide, dell’altezza di cinquanta metri dalla quale si poteva godere del panorama che spazia dalle prealpi lecchesi e bergamasche alla pianura lombarda, e l’altra, di minore altezza, adibita a serbatoio per l’acqua. Esternamente ricchissima di decorazioni eseguite scolpendo una considerevole varietà di preziosi marmi, bronzi ed altri materiali pregiati, fu caratterizzata anche internamente dall’opulenza espressa principalmente dalle notevoli dimensioni dei numerosi ambienti. Accanto al bisogno primario della casa, vennero garantite altre necessità come lo studio, le cure mediche, la sicurezza e l’igiene, oltre che l’attività sportiva, quella prettamente ludica e quella spirituale.

... e poteva disporre di servizi  innovativi come l'illuminazione elettrica e una complessa rete idrica

Furono infatti edificati la chiesa (copia del Santuario di Santa Maria di Piazza di Busto Arsizio), le scuole, il teatro, l’ospedale, il campo sportivo, la stazione dei pompieri ed altre strutture comunitarie. Ciò che era inizialmente un semplice villaggio operaio, alla fine degli anni Venti del Novecento era considerato una moderna cittadina dotata di servizi estremamente innovativi come l'illuminazione elettrica e una complessa rete idrica. A tale cittadina venne dato l’appellativo di “Crespi d’Adda”. I mutamenti sociali e industriali che caratterizzarono il Ventesimo secolo, unitamente all’uscita di scena dei protagonisti dell’esperimento paternalista, posero fine al sogno, praticamente utopico, della famiglia Crespi. Oggi la cittadina è una ricca testimonianza della memoria industriale di oltre un secolo e, grazie soprattutto alla sua posizione isolata, è sopravvissuta alla cementificazione spregiudicata, giungendo a noi praticamente intatta.

Per l'Unesco è un "esempio eccezionale del fenomeno dei villaggi operai"

Questa importante peculiarità le ha fatto ottenere, nel 1995, nientemeno che l’iscrizione nella World Heritage List dell’Unesco, in quanto “esempio eccezionale del fenomeno dei villaggi operai, il più completo e meglio conservato del Sud Europa”. Altri importanti esempi si trovano a Vicenza (Villaggio operaio di Schio), in Francia (Saline Reali di Arc-et-Senans), in Germania (Villaggio Fuggerei di Augusta) e in Inghilterra (Villaggio di Saltaire).

Oltre 40mila persone lo visitano ogni anno

Crespi d’Adda è visitata annualmente da più di quarantamila persone; scolaresche e appassionati di archeologia industriale, provenienti da ogni parte del mondo, ne apprezzano quotidianamente la bellezza struggente e romantica. Un luogo del genere, col suo fascino decadente, non poteva non stuzzicare la fantasia molti di artisti, in particolare scrittori, che vi hanno preso spunto per le proprie opere. Tra di essi spicca Tullio Avoledo che, nel suo romanzo "Breve storia di lunghi tradimenti", ambienta uno dei tratti più significativi proprio a Crespi d’Adda, simbolo del passaggio, sospeso, tra il passato ed il futuro. Anche Gianfranco Manfredi, nel suo capolavoro "Magia Rossa", ambienta nel cimitero di Crespi D'Adda una terribile resurrezione in massa di "zombie-operai".

Il cimitero con la piramide e il prato all'inglese è fra gli ambienti più suggestivi

Già, il cimitero… il luogo che oggi attrae per la sua architettura e per ciò che essa rappresenta. Progettato nel 1896 da Gaetano Moretti, il camposanto è dominato dalla tomba della famiglia Crespi, costituita da una piramide in fondo ad un lungo viale alberato. Le tombe più ricche sono disposte intorno a questo imponente mausoleo, mentre quelle degli operai e delle loro famiglie sono segnalate semplici croci di pietra su un prato all’inglese. Il cimitero è circondato da un muro circolare che racchiude in sé tutte le tombe e che vuole simboleggiare l'abbraccio della famiglia Crespi a tutti gli operai del villaggio. Ciò che traspare è però un’interpretazione “sui generis” dei principi della religione cattolica da parte dei Crespi, lontana dall’ostentato culto della famiglia e del singolo individuo. Infatti la stratificazione sociale appare qui permanere anche dopo la morte. Un sogno che ha avuto fine anni orsono e un altro che è nato recentemente: restituire alla comunità il villaggio di Crespi d’Adda sottraendolo al trascorrere del tempo ed all’inesorabile decadenza degli edifici e della linfa vitale. Forse riuscirà nell’impresa un imprenditore che vorrebbe creare qui il quartier generale delle proprie aziende. Ma questa è un’altra storia, un altro sogno da realizzare…

Testo realizzato da Elisabetta Longhi per www.ilmadeinbergamo.it

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